Quando mettere insieme il pranzo con la cena era ancora una delle principali preoccupazioni della civiltà rurale, i dolci rappresentavano un alimento raro e, per i più fortunati, facevano capolino sulle tavole solo nelle poche occasioni di festa.
Nella grande cucina della nostra casa colonica lo presenza dello zucchero era un’eccezione. Era un’epoca dove anche la terra soffriva di una “magrezza” cronica. Le spighe maturavano a fatica, uno sforzo da condividere con i contadini che passavano tutta la loro vita nei campi.
Così, i genitori e i nonni ci insegnavano che sprecare anche il più piccolo pezzettino di piadina di farina gialla “era peccato”, nonostante fosse diventato duro come un sasso.
Il nostro regime alimentare non era molto vario, ma soprattutto c’era poco di tutto. Poi, succedeva una specie di miracolo. Un po’ di farina poco raffinata, un uovo e qualche pizzico di zucchero trasformavano la piadina in una magia di sapori cui non eravamo abituati. “A fém du quadret ad pida doulza?” era una di quelle frasi che fermava il tempo e a noi bambini veniva l’acquolina in bocca solo a sentirla pronunciare.
“Dai, che par Nadèl a fem i sgnóur enca noun!”, diceva la nonna che con i suoi 92 anni ricordava come, almeno una volta all’anno, un piccolo “sfizio” bisognava pur poterselo permettere. Guardavamo la teglia di terracotta sulla róla come una sorta di lanterna magica da cui, da un momento all’altro, si sarebbe sprigionato il profumo inebriante del poco e prezioso zucchero.
A sentire i vecchi di casa, la ricetta della piadina dolce variava continuamente in base agli ingredienti che si potevano reperire. Nei momenti di abbondanza, un goccio d’olio e un pizzico di sale la facevano più fragrante e gustosa. Oggi, mentre i dolci di fattura industriale sono diventati per molti versi scontati e onnipresenti, la piadina dolce conserva tutto il fascino di un tempo perduto. Una storia di gente povera che, fra mille restrizioni, aveva saputo creare dal nulla il piacere del gusto.
Marta Mancini | Piadineria dalla Marta
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